ASH, American Society of Hematology. Altra edizione da archiviare. Ammetto di aver poltrito in montagna durante l’ultimo ponte quindi ho una a-b-norme quantità di cose da scrivere e di mail alle quali rispondere. L’articolo di oggi quindi sarà sintetico quanto la sceneggiatura di un qualsiasi film di Nicolas Cage, che Dio lo protegga sempre.

Nordic Nanovector

ASH chiude i battenti e facendo un rapido bilancio si può certamente dire che una delle vincitrici di questa edizione è Nordic Nanovector che capitalizza il +700% registrato nell’ultimo anno, quasi interamente costruito però nelle ultime settimane sulle scorte dei dati di Belalutin, un coniugato anticorpo-radionuclide con target CD37 (hanno anche presentato anche dati preclinici che dimostrerebbero una notevole sinergia con rituximab, se interessa il poster è questo: Combination of 177Lu-Satetraxetan-Lilotomab and Rituximab Results in Improved Therapeutic Effect in Preclinical Models of Non-Hodgkin Lymphoma). La società ha impiegato davvero poco per capitalizzare i dati, approfittando dell’occasione per fare cassa. Lo stesso è capitato a bluebird bio, della quale ho scritto pochi giorni fa.

Trillium

Trillium si è presentata ad ASH con una schiera di timori legati al profilo di tollerabilità di TTI-621. Questi timori sono stati in parte mitigati dai risultati fin qui maturati e la società ha comunicato che l’espansione del trial in corso avverrà con nuovi siti che somministreranno l’anti-CD47 al dosaggio di 0,2 mg/kg. Si tratta della soluzione più pragmatica e l’impressione è che il dosaggio non pregiudichi l’efficacia della terapia, sebbene i dati non siano sufficientemente maturi per poter giudicare con precisione. Rimane un’alternativa: quella di dosare TTI-621 a dosaggi maggiori (come quello che ha creato problemi, tanto per intenderci), ma preceduta da una fase a dosaggio inferiore. Trillium sembra escludere, per il momento, questa ipotesi, francamente non capisco il perché.

Pfizer e l’eleganza del pathway del riccio

Buone nuove per Pfizer grazie a PF-04449913, meglio conosciuto come glasdegib. Come suggerisce il nome si tratta di un parente del vismodegib di cui tanto scrissi in passato, e con esso condivide lo stesso target, il pathway hedgehog. Ora, va detto che Erivedge (nome commerciale di vismodegib) non ha ancora reso ricca Curis, tuttavia il partner Roche dimostra ancora di crederci ed il successo di glasdegib potrebbe anche dare nuovo vigore agli studi. Circa 22 studi inerenti vismodegib sono aperti all’arruolamento, fra i quali l’interessantissimo trial che vede l’Hh inibitore somministrato assieme a pirfenidone nel trattamento della fibrosi polmonare idiopatica (IPF). Roche un tentativo di impiego di Erivedge i n soggetti con MDS, linfomi o forme leucemiche l’ha già fatto tempo fa, con scarsi risultati però.

Lo studio condotto da Pfizer ha arruolato soggetti affetti da AML (prima linea) ed MDS ad alto rischio.  La combo citarabina a basso dosaggio e glasdegib ha permesso di ottenere il 15% di risposte complete contro il 2,3% della sola citarabina (p value 0,0142). Nei soggetti affetti da AML si è riscontrato il beneficio maggiore: la sopravvivenza mediana è stata di 8,3 mesi vs i 4,3 della citarabina da sola (HR 0,46 e p value 0,0004).

BCMA,  CAR-T e non solo

Ho scritto di bluebird e del CAR-T anti-BCMA pochi giorni fa e ripropongo in breve la questione oggi per due motivi fondamentali: in primo luogo perché è innegabile che l’edizione 2016 di ASH sia stata quella delle terapie CAR-T ed in secondo luogo perché BCMA è un target interessantissimo, non solo per i linfociti ingegnerizzati, ma anche ber gli anticorpi bispecifici, il che riguarda anche Affimed.

Ora, l’entusiasmo per bb2121  e per i CAR-T di NCI e Novartis e per i tassi di risposta elevatissimi in soggetti pesantemente pretrattati non devono far dimenticare che esiste ancora una disperata necessità di nuove terapie e che BCMA resta un valido target anche per approcci differenti. Una delle questioni più interessanti affrontate in questa edizione riguarda il tasso di recidiva dovuto alla scomparsa del target BCMA il che, ovviamente, renderebbe più complicato o inutile un successivo trattamento con lo stessa terapia. La problematica non è nuova e non riguarda solo questo specifico antigene, tuttavia siamo ancora lontani dal capire cosa possa essere fatto per evitare che questo problema causi una vera e propria resistenza a terapie che si stanno dimostrando altamente efficaci in prima battuta.  La questione principale riguarda se sia o meno coinvolto, ed a che grado, il processo di manifattura delle cellule ingegnerizzate, elemento che potrebbe gettare nuove ombre sulla tecnologia in generale, ma che potrebbe invece favorire, tanto per rimanere in tema, compagnie che realizzano bispecifici con target simili a quelli delle CAR-T di cui si sta parlando ora.

Anti-PD1 ad ASH?

Delle maggiori rivoluzioni in ambito medico, alcune come le terapie CAR-T rimangono promettenti ma confinate in un ambito ben preciso, altre come i CPi riescono a dimostrarsi efficaci anche al di fuori dei territori a loro più congeniali. Detto che anticorpi come nivolumab e pembrolizumab sono già presenti nella pratica clinica, a differenza dei CAR-T più avanzati, e che già sono un fenomeno economico impressionante grazie alle vendite registrate in questi ultimi anni, non si può non sottolineare che i CAR-T fatichino molto a trovare uno sbocco al di fuori dell’impiego nei tumori del sangue, mentre anti-PD1 come i già citati nivolumab e pembrolizumab abbiano già dimostrato livelli di efficacia elevatissimi al di fuori dell’impiego nei tumori solidi. Esempio ribadito con forza ad ASH è quello dell’uso in pazienti con linfoma di Hodgkin, indicazione per la quale tutti e due gli anti-PD1 hanno ottenuto una BTD da FDA.

Sebbene con qualche macchia sul profilo di tollerabilità, bene la combo  Adcetris (brentuximab vedotin) e Opdivo (nivolumab), con un tasso di risposta del 90% su 29 pazienti affetti fa linfoma di Hodgkin valutabili. Bene per Seattle Genetics ($SGEN) che si dimostra ancora una volta una compagnia straordinaria, bene per Adcetris che conferma la sua efficacia e, paradossalmente, bene per Affimed e per il bistrattato AFM13. Vero che il confronto è ostico, ma AFM13 e pembrolizumab in combo potrebbero riservare delle sorprese. Merck ha aggiornato i dati di KEYNOTE-087 e di KEYNOTE-013 (quest’ultimo in pazienti già trattati con Adcetris) ed ha riportato ORR del 69% e del 58% rispettivamente. Se AFM13 (che ha come target CD30 al pari di Adcetris, ma è un bi-specifico e non un ADC) dimostrasse di poter aumentare l’efficacia di pembrolizumab in KEYNOTE- 206 la differenziazione sarebbe probabilmente il profilo di sicurezza delle terapie ed Affimed avrebbe una carta importante da giocare, sia nel trattamento del HL che in ogni indicazione con sovra-espressione di CD30.

Seattle Genetics

Adcetris ben figura ad ASH, ma tutti gli occhi sono puntati su ECHELON-1, fase 3 che potrebbe allargare il mercato dell’anticorpo coniugato in modo significativo, permettendo il trattamento di pazienti affetti da HL in linee terapeutiche precedenti. Dal meeting tuttavia emergono cenni di interessante attività anche da vadastuximab talirine, ADC che ha come target CD33.

In pazienti con AML di nuova diagnosi, ai quali si somministrerebbe chemioterapia secondo lo schema  “3+7” (7+3 per gli americani) è stato testato l’ADC di Seattle Genetics proposto in differenti dosaggi in un primo ciclo, seguito poi da un secondo regime a scelta degli investigatori che, tuttavia, non potevano riproporre vadastuximab talirine. Dal punto di vista della safety i risultati sono in linea con quanto ci si attende normalmente dalla somministrazione della chemio se non per l’aumento di alcuni enzimi legati ad anormalità della funzionalità epatica riscontrati in un solo paziente. Il 76% dei pazienti valutabili per l’efficacia ha ottenuto una risposta, con il 60% in completa remissione ed il 17% in remissione con recupero incompleto della conta ematica. Ora, quello che più mi impressiona è che questo tipo di risposta è stata ottenuta in modo decisamente veloce, dopo un solo ciclo di terapia e su una popolazione non selezionata.

Selinexor

Selinexor con desametasone fa ottenere a Karyopharm un tasso di risposta del 20,5% in pazienti affetti da rrMM estremamente pretrattati, quelli cioè che abbiamo imparato a chiamare quad e penta refrattari. Mi riferisco chiaramente alla fase IIb STORM, quella che attualmente è stata allargata per includere altri 120 pazienti penta-refrattari per cercare l’approvazione diretta dell’XPO1 inibitore presso FDA. Il dato si conosceva da tempo ed è rimasto immutato, qualche dettaglio in più però non fa male.

Nei penta-refrattari l’età media è stata di 68 anni ed i pazienti avevano 7 regimi precedenti a selinexor sulle spalle. Il CBR  del 33% (il CBR, o tasso di beneficio è composto dal 5% di VGPR, 15% di PR e 13% di MR). Nei pazienti che hanno ricevuto le 8 dosi di selinexor (il 65% del totale) l’ORR è stata del 22% mentre il CBR è stato del 41%. Gli eventi avversi di grado 4 più significativi sono stati la trombocitopenia  (34%) e la neutropenia (6%). Il 18% dei soggetti inclusi nello studio ha dovuto smettere la terapia a causa degli eventi avversi. I dati sembrano indicare che la strada percorsa da Karyopharm per questa indicazione è sensata e che una miglior gestione dei SAE possa contribuire ad un maggior tasso di risposta e quindi un benefico clinico più importante.

Con più ombre invece l’apporto nel trattamento dell’AML, dove a tassi di risposta decisamente interessanti si ripropongono problemi di safety, con due morti che potrebbero essere legate al trattamento, una per sindrome emofagocitica ed una per SIRS (Sindrome da Risposta Infiammatoria Sistemica).