Spesso i dati degli studi clinici vengono interpretati in modo curioso. Spesso mi trovo a commentare questi numeri e di trovarmi in contrasto con quanto il mercato ritiene sia il loro valore. Penso a Sarepta (ex AVI Biopharm) ed ai dati sulla distrofia di Duchenne, a come poi l’annuncio di quelli conclusivi abbia generato un 150% di guadagno. Sto pensando ai commenti feroci su CDX 011 e Celldex (CLDX) che probabilmente hanno creato panico negli azionisti, ma dal giorno in cui abbiamo appreso i primi dettagli dello studio EMERGE il titolo non solo non è crollato, ma la quotazione nel mese successivo è aumentata del 20%. Potrei anche andare avanti, ma più ci penso e più si fa strada in me l’idea che forse il genere di reazione che ho descritto poco fa non ha a che fare con un errore di valutazione del mercato, almeno non di tutti. E’ fisiologico.
ArQule ad ASCO ha ricevuto questo trattamento, il titolo ne ha risentito e solo ora prova ad alzare la testa. Tivantinib non entusiasma molti commentatori del settore biotech. Io penso che questi stiano sbagliando. date uno sguardo all’immagine qui sotto, sono gli studi clinici che coinvolgono il farmaco.
A quelli indicati presto si aggiungerà un’ulteriore fase 3 che riguarderà pazienti affetti da HCC in seconda linea di trattamento. Ora, lo so cosa state pensando: ma non sono stati proprio questi dati a far scendere la quotazione di ArQule?
ArQule, la discordia viaggia sul filo dell’inibizione…
Ah, mi mancavano questi titoli assurdi. Tivantinib in fase 2 (randomizzato, controllato con placebo, doppio cieco con il farmaco testato in due dosaggi) ha prodotto dati contrastanti (ASCO 2012, abstract #4006).
107 pazienti con carcinoma epatocellulare per i quali non è possibile eseguire un intervento di resezione epatica, con progressione della malattia dopo il trattamento di prima linea o che non riescono a tollerare tale trattamento sono stati suddivisi in 3 gruppi per ricevere Tivantinib a 360 mg due volte al giorno, 240 mg due volte al giorno oppure placebo. Endpoint primario dello studio il tempo di progressione della malattia (TTP).
L’obiettivo è stato centrato con un miglioramento del 56% rispetto al placebo, dato statisticamente significativo (p value = 0,04)… ma niente fuochi d’artificio, tutt’altro: il risultato non ha entusiasmato per la magnitudo del miglioramento, ritenuta non sufficiente.
Quello che mi pare interessante è invece la parte che riguarda i pazienti con alta espressione del gene cMET. Come dicevo nei vecchi articoli della compagnia, il loro punto di forza è proprio questo, saper disegnare studi che arruolino i pazienti che possano rispondere per il meglio al trattamento con tivantinib.
L’immagine mostra la sopravvivenza in quei pazienti con alta espressione di cMET. Cosa importante da ricordare è che uno dei criteri di stratificazione dello studio era proprio il livello di tale espressione, in parole povere ArQule sapeva che in questi pazienti il farmaco sarebbe stato più efficace e ne ha trovato la conferma, dato che la sopravvivenza mediana è stata di 7,2 mesi contro i 3,8 del placebo (HR = 0,38 e log rank p value = 0,01), la TTP mediana 2,9 mesi contro gli 1,5 del controllo (HR = 0,43 e log rank p value = 0,03) mentre la progressione libera da malattia 2,4 mesi vs 1,5 (HR = 0,45, log rank p value = 0,02).
Dal punto di vista della sicurezza il dosaggio a 360 mg due volte al di ha creato troppi problemi a carattere ematologico, problema che è stato superato riducendo il dosaggio a 240 mg per tutti i pazienti coinvolti nello studio. La riduzione del dosaggio è coincisa con la diminuzione degli eventi avversi, neutropenia ed anemia in particolare.
La strada per una fase 3 deve passare per forza per l’alta espressione del gene cMET, valido bersaglio, come dimostrano i dati della fase 2 ed altri studi condotti impiegando MET inibitori. Volete un esempio pratico? Ne ho parlato pochi giorni fa a proposito di Cabozantinib di Exelixis.
Esistono altre categorie interessanti che possono essere prese in esame per ricerche future, ma il limite principale è il basso numero di pazienti.
Il livello di AFP ad esempio potrebbe essere impiegato come criterio discriminante per includere o meno futuri pazienti nei trial. Il dosaggio dell’alfa1-feto proteina (AFP) può non essere accuratissimo come marker tumorale, ma potrebbe aiutare nell’individuare i pazienti migliori o un fattore predittivo del buon esito del trattamento.
Un anno che potrebbe cambiare le sorti di ArQule.
Da qui ad un anno, a spanne, ArQule attraverserà alcuni incroci di notevole interesse. Non si tratta di eventi binari in senso stretto, visto che le date precise non le conosciamo, quindi il livello di rischio è maggiore; tuttavia la bassa capitalizzazione dell’azienda fa si che l’esito positivo di ognuno di questi eventi possa fornire buone occasioni di guadagno.
Al 30 giugno ArQule aveva in pancia poco meno di 150 milioni di dollari ed al momento capitalizza 420 milioni di dollari. La compagnia basa quasi tutto sullo sviluppo di Tivantinib, una volta conosciuto come ARQ 197. Risulta chiaro che le sorti di ArQule dipendono dal farmaco in modo predominante e ogni passo falso costerà caro, ma la capitalizzazione al netto della cassa è di 270 milioni di dollari, cioè quello che può essere ricondotto ai farmaci e alla tecnologia in possesso della compagnia.
Tivantinib è un farmaco promettente, molto promettente. ArQule? Molto sottovalutata a mio parere… anche perché, ma non ho intenzione di parlarne ora, Tivantinib non è l’unica freccia che ArQule ha in faretra.